La Pandemia da SARS-CoV-2 è stata un evento che ha colto impreparato il mondo intero, seppure con molteplici differenze di approccio e risposta (sia a livello di organizzazioni politiche e sanitarie, sia a livello culturale). In particolare, il mondo della scuola in Italia si è trovato costretto a inventare quasi dal nulla una nuova modalità per raggiungere gli studenti, impossibilitati a recarsi a scuola in quanto per definizione luogo di aggregazione (e quindi di possibile diffusione di contagio).
Praticamente, l’intero secondo quadrimestre dell’anno scolastico 2019-2020 è stato caratterizzato dal ricorso alla Didattica a Distanza: sebbene però tale termine sia divenuto familiare, grazie alle cronache, non è corretto immaginare tale strumento come qualcosa di uniforme. La realtà è stata più simile al vestito di Arlecchino, con frammenti piccolissimi e tra loro estremamente variegati: citando solo gli estremi, in alcuni casi sono state trasmesse alle famiglie schede di attività didattiche da svolgere sotto il monitoraggio dei genitori, mentre ci sono stati esempi di mantenimento del contatto (seppure mediato dallo strumento informatico) in forma quotidiana e per un tempo significativo.
Oltre alle scelte dei diversi istituti, permesse dalla normativa in materia di autonomia scolastica, altri fattori hanno poi contribuito alla riuscita della Didattica a Distanza: l’età degli studenti, correlata al livello scolastico e di autonomia rispetto alle attività proposte; la disponibilità nelle diverse case di strumenti tecnologici adeguati e di una connessione a Internet sufficientemente stabile; la possibilità dei genitori di essere di supporto ai figli, combinando la propria preoccupazione per la situazione e il lavoro a distanza con le esigenze dell’apprendimento. Il risultato di tutto questo non può quindi per definizione essere letto in modo univoco e sintetico.
Certamente, è da elogiare l’impegno di quei docenti che hanno letteralmente inventato un nuovo modo di svolgere il loro lavoro in pochi giorni (specie considerando, come ha dimostrato quanto osservabile nel secondo anno di pandemia, che alcuni non hanno neppure pensato di imparare dall’esperienza).
Rispetto all’apprendimento, stanno emergendo gli effetti a dir poco deludenti vissuti da quasi tutti gli studenti: diversi articoli, tra l’altro pubblicati da gruppi di ricerca attivi in parti diverse del mondo e quindi osservando realtà operative diverse, confermano che c’è stato un rallentamento delle acquisizioni, massimamente evidente per chi aveva già in precedenza delle difficoltà in questo ambito. Significativo è l’esempio dei soggetti affetti da Disturbo Specifico dell’Apprendimento, in cui anche il nostro gruppo ha potuto documentare il mancato raggiungimento dell’evoluzione minimale attesa delle competenze di lettura in circa due terzi dei bambini durante il periodo di Didattica a Distanza del cosiddetto “primo lockdown”. Altri lavori documentano una riduzione delle capacità motorie globali e in particolare di uso finalizzato dell’atto motorio (cosiddette “abilità prassiche”), effetto certamente anche del confinamento presso la propria casa vissuto a seguito delle misure intese a contenere i contagi.
Globalmente, si registra una minore acquisizione di competenze in ambito matematico, scientifico e di cultura generale. Il caso dei bambini affetti da cefalea è altrettanto interessante, sebbene le osservazioni scientifiche non siano ancora pienamente disponibili e certamente non siano complete. Va detto come prima cosa che la pandemia da SARS-CoV-2 e le misure ad essa correlate chiaramente non potevano avere - e non hanno avuto - un effetto sui meccanismi biologici fondanti la cefalea, se non per il rallentamento nella risposta sanitaria (gravoso in questo come in tutti gli ambiti della medicina, con conseguenze i cui effetti iniziano appena a intravvedersi e che già si coglie saranno gravi per diversi anni a venire). Nell’età evolutiva, però, è da tempo noto che i meccanismi biologici che sostengono la cefalea primaria (ossia senza riconoscibile causa in altra patologia o condizione) sono fortemente interfacciati con i fattori emotivi. Si tratta in fondo del riconoscimento dell’importanza del sistema dello stress, già descritto nei lavori pionieristici di Hans Selye e che rappresenta concretamente la prova della necessità di una lettura secondo modelli sistemici della patologia (stante l’impossibilità di mantenere le rigide separazioni tra organi e apparati artificiosamente costruite dalla evoluzione della medicina soprattutto nel mondo occidentale).
L’esperienza del lockdown ha prodotto effetti variabili sulla cefalea, che sembra per il momento di poter ricondurre a due situazioni principali (con un modello sicuramente adatto più a una riflessione sui grandi numeri che sui singoli soggetti). Quei ragazzi che avevano nell’aspetto di ansia sociale uno stimolo importante per l’aumento del numero e della severità degli attacchi, infatti, hanno paradossalmente avuto un beneficio dal fatto di essere sottratti alla necessità di esporsi agli altri, salvo tornare a stare a volte ancora peggio di prima una volta divenuta possibile la ripresa della vita sociale e scolastica. D’altro canto, quei ragazzi che trovavano nella scuola e nei pari età un sostegno importante per gestire le loro fragilità emotive, hanno perso questo supporto in un periodo carico di incertezze, di legittime paure per la salute propria e dei propri cari, finendo per incrementare quanto meno il numero degli attacchi.
Di fronte a tutto questo, stupisce la sostanziale assenza di attenzione che la politica italiana continua a manifestare di fronte alle giovani generazioni, a partire dai soggetti più fragili. Se si escludono le note di esenzione dall’uso della mascherina, trovare una parola di attenzione ai bambini e agli adolescenti, specie se affetti da disturbi neuropsichici, nei molteplici decreti emessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e nei diversi decreti legge è quasi impossibile. Mentre sin da subito era stato accuratamente normato il legittimo diritto dei cani di casa alla passeggiata quotidiana, solo un intervento molto forte da parte dell’Associazione Italiana Famiglie ADHD ha permesso ai neuropsichiatri infantili di certificare il diritto a un briciolo di attività motoria per bambini affetti da una patologia che per definizione si caratterizza per l’iperattività fisica. Addolora, però, vedere che sia necessario tanto impegno per ottenere qualcosa che il buon senso dovrebbe far ritenere banale (eventualmente supportato dall’ascolto di chi si occupa ogni giorno del prossimo suo malato). Chi, ad esempio, a qualsiasi età soffre di cefalea non ha certamente bisogno di altro dolore, purtroppo la sua patologia ne causa già troppo.
Dr. Matteo Alessio Chiappedi
Centro Cefalee dell’Età Evolutiva– S. C. Neuropsichiatria Infantile
Istituto Neurologico Nazionale
IRCCS C. Mondino/U.O.S.
Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Vigevano - ASST Pavia